SNEAKERS

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  1. salamandra941
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    Autore: Salamandra941
    Rating: G
    Genere: Angst
    Avvisi: nessuno.
    Genere: Introspettivo
    Disclaimer: sono tutti fatti realmente accaduti nella mia vita, ma non ledono la dignità di nessuno quindi... i nomi sono stati tutti rigorosamente cambiati per tutelare la privacy dei personaggi.









    SNEAKERS


    "Ognuno si assume le responsabilità delle proprie azioni e ne paga personalmente le conseguenze"; almeno così dicono.

    Non è il mio caso.

    Io ne pago solo le conseguenze.

    Una grande città rinomata in tutto il mondo per la spettacolare bellezza dei suoi monumenti, può diventare fredda, agghiacciante, quando è la vita a costringerti ad avere a che fare con essa.

    Era gennaio quando camminando per le strade deserte di quel piccolo quartiere notai per la prima volta il sole.

    Non so cosa ci facesse, forse era lì solo per caso, in attesa di qualcuno o di qualcosa che attirasse la sua attenzione altrove.

    Non mi ero ancora accorta del sole, da quando i miei genitori furono costretti a trasferire la famiglia, me compresa, in quella grande città che, almeno in parte, riusciva ad offrire abbastanza lavoro per vivere dignitosamente.

    Avevo lottato contro me stessa, avevo gridato, protestato, tirato pugni, ma non avevo ancora visto il sole.

    Il sole mi si presentò a sorpresa, quella fredda mattina di gennaio, vestendo i panni di una ragazza minuta, non alta, non bella, ma nella quale mi rispecchiavo senza comprenderne la ragione.

    Stava spazzando con una lentezza estenuante la parte di marciapiede antistante il negozietto di abiti presso il quale lavorava come commessa. Otto delle dieci dita delle mani serravano saldamente il manico del suo strumento di lavoro, le altre due reggevano, con una delicatezza quasi incompatibile con la forza impressa dalle altre dita, una sigaretta appena accesa.

    Era quello il motivo di tanta lentezza, pensai, l'incombenza sarebbe dovuta durare abbastanza a lungo da consentirle di consumare quel tabacco di cui così tanto l'espressione del suo volto mostrava il gradimento intenso.

    Stretta nel suo semplice cappotto che la fasciava per intero, non staccava lo sguardo dalla pavimentazione stradale, quasi come se cercasse in ogni dettaglio del marciapiede un appiglio a cui agganciare i suoi sogni, le sue speranze, o forse, chissà, le sue delusioni.

    Decisi di entrare in quel negozio, non so bene ancora oggi il perchè, ma sentivo l'impulso irrefrenabile di parlare con quella ragazza, di chiederle come aveva fatto, lei, ad adattarsi alla vita di città, lontana dal proprio paese, lontana dai propri affetti, o forse vicina, chissà.

    Attesi che l'ultimo sbuffo di fumo e il lancio della cicca verso un'auto in sosta decretassero la fine della pulizia della strada, ed entrai.

    - Buongiorno, desidera? -

    - Quanto costa quel giaccone là? - chiesi

    - Settanta euro -

    - Posso provarlo? -

    - Certo. -

    La ragazza scomparve nel retro del negozio, io provai il giaccone, facendo in modo da convincermi che non mi calzasse bene, ed uscii dal negozio non prima di aver dato una fugace occhiata al contenuto del mio piccolo portafoglio.

    Due euro e quarantacinque centesimi.

    ***********

    Le strade di una grande città, quando non le conosci, sembrano quasi tutte uguali tra di loro.

    Fanno eccezione le grandi strade legate in qualche maniera alla storia, alla tradizione, alla cultura.

    Prova ne sia il fatto che non è necessario specificare in quale delle città italiane si trova Via Condotti, Via Montenapoleone, Viale Ceccarini.

    Le strade anonime di periferia sono invece tutte uguali tra di loro, a prescindere dalla locazione geografica, dal tempo e dallo stato d'animo con cui le si percorre.

    Camminavo molto per le strade di periferia di quella grande immensa città che, suo e mio malgrado, mi ospitava ormai da interminabili mesi.

    Il freddo dell'inverno aveva ceduto il suo posto ad una primavera anomala, di quelle che per i meteorologi preannuncerebbero imminenti catastrofi.

    Quel giorno non era nè caldo nè freddo, era anonimo, anonimo come quella ragazza appena adolescente che si aggirava per altrettanto anonime strade di periferia.

    Il paio di jeans elastici consumati dal tempo non lasciava dubbi sul contenuto delle tasche: un telefono cellulare, ed un pacchetto di Camel da 10 che faceva tristemente capolino da una tasca posteriore tanto stretta da essere incapace di contenere altro.

    Le scarpe da tennis di bassa fattura fasciavano piedi agili e veloci, consumando chilometri di strada tutta uguale, senza gioia, senza speranza, senza futuro se non nei rari cartelli stradali che indicavano l'imminente apertura di un cantiere edile.

    Negozi senza pretese si susseguivano lenti, contornati da persone senza volto e senza identità. Due giovani nigeriane sedevano accanto a un portone, vestite di sandali e shorts, attendendo qualcuno che in cambio di soldi chiedesse attenzione.

    Sto bene, pensavo, sto bene, in mezzo ai tombini del mondo, dove il degrado ha l'indubbio vantaggio di farmi sentire accettata, di farmi sentire importante, di farmi sentire in armonia con il resto del mondo.

    Al di là dei binari metropolitani, una ragazza, commessa di un negozio di fiori, bagnava il selciato sciogliendo con l'acqua i residui di terra caduti chissà quando.

    Ricordai all'improvviso di non aver mai più rivisto quel negozio di giacche e vestiario, pur essendoci passata ancora davanti molte volte, e di aver scorto distrattamente nella vetrina oggettistica più simile a una ferramenta che a una boutique di bassa moda.

    Non posseggo neanche i miei sogni, pensai.

    La calura del giorno mi aveva riarso la gola, e come in un film d'altri tempi, lo sguardo aveva cercato e raggiunto una fontana.

    Le fontane di Roma sono particolari, uniche al mondo. In barba al risparmio idrico gettano via tonnellate di acqua buonissima da bere, freschissima, di ottimo sapore, una vera ricchezza.

    Infilai un dito all'estremità del cannello d'uscita, tappandone il flusso, e, secondo lo schema di chissà quale geniale progettista, l'acqua iniziò a zampillare da un buco posto a metà dell'ugello. Tutte le fontane di Roma funzionano così.

    Iniziai a deglutire un sorso dopo l'altro... uno, due, tre sorsi, quattro, cinque, sei sorsi, e così via fino a perderne il conto.

    All'improvviso si fece strada nella mia testa una idea a cui non avevo ancora mai pensato prima.

    Potevo bere di quell'acqua fin quando avessi voluto, senza alcun limite.

    Avrei potuto godere di quella frescura senza alcun limite che non fosse la mia stessa capacità di ingurgitare liquidi.

    Potevo decidere io cosa farne, potevo decidere io quando smettere, potevo decidere io, potevo goderne io, potevo farci tutto ciò che volevo.

    Quell'acqua, in un certo senso, era mia.

    Mi dicevo che non c'è alcuna differenza fra quella fontana e il possesso esclusivo di essa.

    Un quadro, ad esempio, è mio, e me lo guardo tutte le volte che voglio, senza alcun limite che non sia la mia stessa capacità di guardare. O la durata della mia stessa vita. Non c'è differenza, pensai, dal momento che l'acqua di quella fontana la posso bere tutte le volte che voglio, senza alcun limite che non sia in me stessa.

    Possedevo l'acqua di Roma.

    Finalmente possedevo qualcosa.

    ************

    Presto le strade, i muretti, i cespugli che un tempo mi erano tanto ostili, o a cui forse ero io così ostile, iniziarono a diventare famigliari come fossero umani abitanti della tua stessa zona, iniziai a conoscerli, a riconoscerne i dettagli, a sentirne il profumo, a percepirne le speranze.

    Già, le speranze.

    Le speranze che si nascondono negli angoli di un muretto, o le speranze che si celano sotto una panchina per strada.

    La gente sola ha sempre speranze, fino a che non collassa e cede il posto alla malinconia.

    "Spesso il male di vivere ho incontrato..."

    Io avevo speranze.

    Nel giro di poco quella città così apertamente ostile e straniera era diventata un po' più mia.

    Possedevo l'acqua, possedevo le strade, possedevo le vetrine di alcuni negozi, possedevo le lanterne, possedevo i marciapiedi e gli alberi di platano che così pervicacemente sfidavano il caos e l'inquinamento urbano, ostinandosi a vivere.

    Quanti chilometri avranno macinato le mie scarpe di tela per portare la regina a visitare il suo regno? Seduta in un angolo di periferia sconosciuto alla gente perbene, ritrovavo affetti, ritrovavo ricordi, ritrovavo la voglia di credere in me stessa, di costruire qualcosa per raccontarlo a qualcuno.

    A mia nonna Jolanda.

    *************

    Nonna Jolanda era morta da un pezzo, lasciando mio padre erede universale di due armadi e di un letto.

    A me aveva lasciato la sua dolcezza, la sua semplicità, e quel senso di appartenenza tribale a un paesello di poche migliaia di anime, da cui mai si sarebbe allontanata, neanche per amore.

    Il medico, il farmacista, il salumiere, non erano ruoli da svolgere ma persone reali, chiamate per nome.

    Magari un giorno ce l'avrei fatta anch'io a dare i nomi alle persone.

    Ci stavo riuscendo.

    Roberta era una ragazza semplice, mai truccata, che per mestiere (manco a dirlo) faceva la commessa in un supermercato.

    Il mondo è delle commesse.

    Aveva iniziato come cassiera di quel supermercato, fino al giorno in cui un malvivente le portò via la cassa minacciandola con una pistola che aveva appena sparato forando la controsoffittatura del negozio e fugando ogni dubbio sulla sua perfetta funzionalità.

    Passò al banco salumi a tagliare prosciutti e formaggi.

    C'era un che di sublime nel suo modo di essere donna. Avrà avuto vent'anni, ma si muoveva con la prudenza e la saggezza di chi aveva alle spalle una vasta esperienza di dolore.

    Mi guardava, e mi sorrideva di un sorriso speciale.

    Non era il solito sorriso di ghiaccio compreso nel prezzo del pane, era un sorriso vero, autentico, significativo.

    Ci vedevamo talvolta per caso negli istanti di pausa, sul retro del negozio, dove i lavoranti trascorrevano i pochi minuti strettamente necessari a consumare una sigaretta. Ero contenta di aver preso quel vizio, così potevo condividerlo con lei, che mi parlava dei suoi sogni, del suo ragazzo sempre in giro per il Lazio, dei soldi che non bastavano mai, e della voglia di sfondare nella vita e di avere un negozio tutto suo, un giorno.

    Un negozio tutto suo.

    I maschi da bimbi sognano di fare l'astronauta, le bimbe la modella, o la regina. Da grandi i sogni cambiano e si vestono di un pragma difficile da decifrare.

    Io sognavo una amica, lei una bottega da salumiere ma che fosse tutta sua.

    Volevo bene a Roberta, o forse volevo bene ai suoi sogni. Mi dicevo che se un giorno avessi avuto un sogno come il suo, allora sarei diventata grande.

    Roberta potevo incontrarla ogni volta che volevo, bastava conoscerne i tempi, e aspettare il momento opportuno, accendino, sigaretta, e via per le vette della nostra fantasia, fino a che durava il tabacco.

    Roberta era mia.

    Un giorno che chiesi come mai da un bel pezzo non c'era, mi dissero che aveva preso un lungo periodo di ferie, che era andata lontano, che era tornata al suo paese, che era emigrata, che era via, che era assunta in un altro negozio, che sarebbe tornata l'indomani.

    La incontrai dopo mesi, smarrita per strada, lo sguardo perso nel vuoto, e un pancione da settimo mese. Mi riconobbe a stento, mi salutò a malapena, le chiesi come stava, dove stava, mi disse "tutto bene", e per nascondere le lacrime che iniziavano a scendere, andò via.

    Non l'ho mai più rivista.

    **********

    Roberta non era mia, non era mai stata mia. Lo era il suo sogno di mettersi in proprio. Lo era il mio sogno di essere ricca da poterle regalare questo sogno.

    Ma non puoi regalare alcun sogno, se la vita ti costringe a correre dietro a un furgone per autotrasporto, a trasferirti altrove, a spiantare e ripiantare te stessa più volte.

    **********

    Giacomo era così.

    Incurante delle sue origini meridionali simili alle mie, si presentava al mondo in maniera asettica.

    Non una parola fuori posto, non una inflessione dialettale, mai un concetto che andasse al di là del perbenismo che tanti respingono e che per lui era un valore. O almeno così credevo.

    A guardarlo con occhi innocenti appariva un ragazzo timido, impacciato, insicuro, di quelli che puoi prendere a sberle nella certezza che mai te ne restituirebbe neanche una.

    Un ragazzo di gomma.

    Lo conobbi a scuola, era due anni avanti a me come classe, tre anni avanti a me come età, la sua fama di studente modello lo precedeva dappertutto, e non sempre in maniera positiva.

    La cosa non mi spaventava affatto, per una qualche misteriosa ragione genetica la fama della secchiona impenitente aderiva perfettamente alla mia persona al punto tale che potevo farne, con lui, un improbabile punto di partenza.

    Per un'altra di quelle misteriose ragioni che la vita ti pone dinanzi ma non ti spiega, frequentavamo gli stessi posti: la scuola, la sala computer nelle ore buche, il muretto insudiciato e nascosto dello stesso quartiere.

    Indossavamo perfino lo stesso modello di scarpe di bassa fattura.

    La prima volta che lo vidi lì, seduto sul muretto, incurante della polvere stradale accumulatasi sopra, aveva in mano un libro, e ne stava divorando le pagine incurante dell'ambiente circostante. Ebbi la netta impressione che pioggia o grandine non lo avrebbero distratto da quelle pagine, che nessun essere umano, con le sue grida o con le sue azioni, avrebbe potuto neanche scalfire la sua attenzione tutta concentrata nelle profonde verità di quel libro misterioso che stava leggendo.

    Ne intravvedevo a malapena il titolo: "Ossi di seppia".

    Non si può avere nulla a che fare con uno così. Uno così è disumano.

    Non feci in tempo a cambiar strada che lui alzò gli occhi, quasi sapesse che ero là (me lo confessò molto tempo dopo, mi aveva visto arrivare, ed il suo cuore aveva accelerato sperando di avere a che fare con me).

    Iniziammo a parlare di tutto e di niente, delle cose più assurde di cui un maschio e una femmina parlano quando quello che conta non è il contenuto ma ascoltare la voce rassicurante dell'altro.

    Tentai inutilmente di condividere con lui una sigaretta, e capii che quel vizio ormai, in me, aveva le ore segnate.

    Iniziammo a condividere le idee, a condividere le frasi, a condividere le ore, a condividere le azioni, a condividere i sentimenti, a condividere la lingua, la saliva, il contatto della pelle sotto le mani.

    La città eterna che odiavo stava iniziando a donarmi qualcosa di più.

    Stavo diventando grande.

    Edited by salamandra941 - 10/8/2009, 11:15
     
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  2. NeideLunare
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    Prima di tutto leggi l'avviso. Manca il sottotitolo; si tratta di una OS o di una Longfic? Perchè così te lo modifico.
    Secondo, manca la tabella dei rating. Per sapere cos'è o come compilarla, leggi qui: http://tokiohotel.forumfree.net/?t=35019965
     
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  3. salamandra941
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    Tutto fatto Neide
     
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2 replies since 8/8/2009, 11:08   85 views
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