Quattro passi più in là

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  1. keira357
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    Premetto, è abbastanza priva di senso come storia.
    Spero non sia troppo pallosa o simili... :sick:
    Niente, vi lascio... Ah! E' parecchio lunga, scusate... :cry:

    Un grazie in anticipo!! :wub:

    Titolo: Quattro passi più in là
    Autore: keira357
    Rating: G/PG
    Avvisi: Het, Angst, Romance
    Disclaimers: I personaggi e le situazioni qui narrate sono tutti frutto della mia fantasia. Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale, non scrivo assolutamente a scopo di lucro.





    Quattro passi più in là



    -Stai scappando-

    La colonna sonora di una vita.


    Luglio 2003

    La sabbia fredda entra dispettosa nei miei sandali aperti provocando leggero fastidio. Le onde del mare accanto a noi sibilano riversandosi gentili sul bagnasciuga, accompagnando la nostra lenta camminata.
    Le campane rimbombano nel paesino deserto, segnando le otto di sera. La luce sta scemando per lasciare il posto alla buia sera e alle stelle luminose.
    Mi guardo intorno, inspirando l'aria salmastra e frizzante. La sensazione che ne deriva è sempre di relax e abbandono.
    Se solo non fossi costretta a spezzare questa deliziosa quiete, oggi stesso.

    Le sue parole mi giungono ovattate, tento di concentrarmi per riuscire a cogliere il centro dell'intero discorso.
    -Dim ci ha invitati per un barbecue notturno, ci saranno salsicce, birra e pannocchie. Non so dove le abbia trovate e non so neanche se possiamo fidarci della sue capacità ai fornelli, ma... immagino non abbiamo molta scelta, no?- domanda ridacchiando.
    Ho adorato il suo sorriso sbarazzino dal primo momento.
    Le fossette che si creano sulle gote rosee, le labbra fini e anche i denti imperfetti. Vorrei tanto poterlo accontentare, poterlo far ridere ancora e ancora.
    Annuisco lentamente sfuggendo le sue occhiate dolci. Ogni sua premura mi uccide pian piano.
    James volge gli occhi scuri all'oceano, contemplando i colori dell'acqua, oscillano dal verde all'azzurro cielo, dall'indaco al grigio cupo.
    È doloroso pensare quanto sia splendido il panorama cornice dei nostri incontri, forse se questo luogo fosse appena più penoso sarebbe meno difficile ciò che sto per rivelare.
    Prendo un profondo respiro stringendo maggiormente la sua mano calda e grande, mi ingloba sempre nel suo abbraccio confortevole.
    -James, c'è qualcosa che devo dirti.- lo interrompo a bassa voce.
    Già sento bruciare la sua delusione sulla pelle, lo sconforto e l'amarezza.
    -Ti ascolto.- mi esorta tirandomi verso gli scogli.
    Ti prego non sorridermi, strizzo le palpebre forsennatamente.
    -Riparto domani mattina, torno a casa.- spiego senza guardarlo in viso.
    Ho paura delle sue iridi e di ciò che potrebbe esservi inciso dentro, dell'espressione attonita che incontrerei.
    Il silenzio si protrae denso, solo i gabbiani stridono e urlano volando sopra di noi.
    -Avevi promesso saresti rimasta fino a Settembre.- mormora spaesato.
    La presa delle nostre dita si scioglie, rendendo materiale l'inevitabile distanza che ci separerà tra poche ore. Più di cinquecento chilometri a ricordarci quanto questi due mesi siano inconsistenti.
    -Lo so, ma ci sono così tante cose che devo fare. Il lavoro al negozio e il nuovo corso. Ti ho parlato del nuovo corso, vero?- elenco frenetica, le iridi sfuggono veloci senza mai fermarsi su un punto saldo.
    -Raya perché mi fai questo?-
    Il tono strascicato si incide sulla mia pelle, lasciando cicatrici fin troppo evidenti. Non chiedermelo, James, non interpretarla come una decisione a tuo danno, è solo che devo pensare alla mia salvaguardia. Niente di personale, nessun desiderio malsano di annientarti.
    Anzi, se solo avessi la forza di ignorarti, allora non sentirei questo bruciore costante in gola.
    -Non voglio farti del male. È solo che... è meglio per me, tutto qui.- la mia voce suona lontana e roca.
    Non avevo mai provato tanto fatica, tanta pena nel lasciare qualcuno.
    Scuote il capo e ciuffi dispettosi di umidi capelli biondi gli ostruiscono la visuale. Quante volte li ho accarezzati sdraiati su un solo letto, alla luce soffusa della luna? Quante volte li ho asciugati con il mio phon quasi bruciato?
    Quante volte li ho tirati e attorcigliati a mio piacimento, accucciati sul divano davanti al televisore del soggiorno?
    Serro per un secondo le palpebre, recuperando fermezza e solidità.
    Un basso sibilo mi giunge alle orecchie, riconosco la sua frustrazione, è palpabile nella brezza estiva.
    -Come puoi spuntare all'improvviso con una notizia simile?- sta quasi urlando, arretro gemente -Non è così che doveva andare, te ne rendi conto?!- continua stringendo i pugni attorno alla maglietta spiegazzata.
    -Insomma, io...-
    Lo blocco appena in tempo, una mano dinnanzi al volto a fermare quelle parole che avrebbero pesato troppo. Un ti amo può straziare più del fuoco.
    Riconosco ormai la flessuosità della sua voce quando sta per confessarmelo e, anche ora, nonostante la sua palese rabbia, posso percepire quella nota dolce sulle sue labbra.
    Dio, James, non dirlo. Non posso più risponderti anch'io.
    I suoi passi si fanno attutiti e lo conducono lontano, verso la strada sterrata, fuori dalla portata della mia percezione.
    -Sei soltanto una bambina immatura, Raya.- sibila astioso.
    Le sue gambe muscolose escono dalla mia visuale, lasciando un vuoto denso. Le lacrime si affacciano dispettose e irriverenti, premono contro le mie ciglia chiare per poter uscire.
    E al buio delle nove mi giunge l'ultimo suo lamento.
    -Stai scappando-


    Ottobre 2005

    -Buongiorno signorina Kinney- saluta gioviale l'uomo davanti a me.
    Stringo forte la sua mano, tentando di imprimere nella stretta tutta la sicurezza che possiedo. Lo conosco da quando avevo soltanto cinque anni, eppure ancora non rinuncio a cercare di fare una buona impressione.
    -Salve signor Wedoow.- ricambio sorridendo e accomodandomi.
    Poggio la borsa a tracolla per terra, incrociando poi le dita sul mogano dell'ampia scrivania che ci separa.
    La piccola stanza che funge da ufficio è sempre la stessa, pareti giallo tenue, parquet molto scuro e ampie vetrate che danno sul giardino posteriore dell'edificio.
    Sono venuta qui spesse volte, ma non mi sono mai soffermata abbastanza a lungo da studiare i quadri appesi ai muri o le fotografie incorniciate sulla libreria.
    Riconosco appena la moglie del rettore e le sue due piccole figlie biondissime e sorridenti. Devo ammettere questo luogo trasmetta familiarità e calma, quasi fosse un'abitazione in miniatura.
    Oltre i tendaggi color crema intravedo, sul davanzale, due vasi di ortensie violette che mi ricordano il terrazzo di mia madre, rigoglioso di piante e fiori.
    I miei occhi si fermano curiosi sui volumi pesanti impilati sugli scaffali, libri di letteratura e poesia, prevalentemente. Scorgo anche qualche tomo di storia antica e religione induista e buddista, l'ultima mensola invece ospita guide turistiche della Malesia, dell'India e del Congo.
    Tra il fruscio delle carte che il mio ospite sta scartabellando odo il chiacchiericcio indistinto degli studenti che si dirigono al cancello, per un momento desidero ardentemente fuggire da questa stanza, nonostante la sua calda accoglienza.
    -Quante volte ti ho detto di darmi del tu e di chiamarmi Brian?- irrompe schiarendosi la gola.
    Riporto la mia attenzione sull'uomo brizzolato che mi sorride gioviale. Lui e mio padre sono amici sin dai tempi del liceo, giocano a golf, fumano sigari e commentano le partite di football.
    -Non mi sembra tu mi abbia chiamata Raya.- puntualizzo serena.
    Ride mettendosi comodo e lisciando la camicia a righe azzurre e bianche. Conosco già il perché del colloquio che si sta tenendo e francamente avrei preferito non doverlo affrontare.
    -Raya, allora... Si presenta un'opportunità davvero importante.- comincia guardandomi di sottecchi.
    Annuisco automaticamente già pensando a come rifiutare senza ferirlo troppo. So quanto ci tenga, quasi al pari dei miei genitori.
    -Insomma, un intero anno a Parigi potrebbe segnare la tua futura carriera artistica.- spiega orgoglioso e scalpitante.
    So quanto sia stato difficile trovare un altro posto all'interno del progetto francese, affinché vi potessi partecipare anch'io. Semplicemente, io non l'avevo richiesto.
    -Hai mai visto Parigi?- domanda poggiando il viso su un palmo.
    Mi accomodo meglio, sempre più imbarazzata. Man mano che il tempo scivola via, sento che la delusione che causerò sarà maggiore.
    -No, purtroppo.- mi limito a rispondere inghiottendo pesantemente.
    Le lancette dell'orologio a muro ticchettano rumorose, scandendo i minuti che pesanti non trascorrono mai. Fisso la porta di legno impaziente di lasciare tante aspettative.
    -Beh, ne avrai l'occasione. Sono sicuro l'amerai profondamente.- assicura Brian sporgendosi verso il mio corpo teso.
    Sta per cominciare a descrivere le bellezze in cui potrei incappare nella meravigliosa capitale francese, quando lo interrompo scuotendo il capo.
    -Non posso accettare, signor Wedoow.- annuncio scansando le sue iridi.
    E mi sembra d'obbligo chiamarlo nuovamente per cognome, sarebbe troppo irriverente rivolgermi a lui come un amico di famiglia.
    -Cosa? Stai scherzando, spero...- la voce strozzata mi giunge smorzata e distante.
    Nego fortemente raccogliendo la borsa, pronta a scappare via.
    -Ho troppo in ballo in questo momento. Non sono pronta per partire e vivere un anno all'estero.- respiro nervosamente dal naso, sperando non mi fermi -Io apprezzo tantissimo, tantissimo ciò che ha fatto per me, ma sono costretta a rifiutare.- sibilo preparandomi ad alzarmi.
    -Raya... capisco possa essere spaventata, ma certe possibilità non si ripetono due volte.- mi ammonisce speranzoso di farmi cambiare idea.
    -Non posso coglierla, mi dispiace.- ribadisco più decisa.
    Non ci devono essere fraintendimenti, solo chiarezza e determinazione.
    -Oh ragazza mia, tuo padre ne sarà profondamente deluso.- riflette sconsolato -Sei sicura di avere dei buoni motivi per rimanere?-
    Dubito che per lui, o per chiunque altro io conosca, i miei motivi possano essere validi, ma ai miei occhi sono la sola ragione che mi può spingere verso tale decisione.
    -Assolutamente, non ho tentennamenti.- confermo.
    Percepisco il disagio crescere ancora sottopelle, quindi trovo il coraggio di scostare la poltrona e ergermi in piedi.
    Tendo una mano ad aspettare che me la stringa in segno di saluto, il suo consenso alla fine definitiva di questa discussione.
    -Non sono d'accordo, lo sai- biascica fissando il mio palmo.
    Mi sembra di trattenere l'aria mentre attendo che si alzi. Passano ancora pochi secondi prima che lo faccia, sbuffando sconfitto.
    Senza un'ulteriore parola ricambia il mio congedo. Sono sicura stia tentando di comprendere cosa mi passi per la testa, quale follia mi spinga a buttare all'aria la sua offerta.
    Esco rapida, senza voltarmi indietro, senza guardate per l'ultima volta l'interno di quell'ufficio confortante, ma prima che possa richiudermi alle spalle la porta sento il suo ennesimo dissenso.
    -Stai scappando-


    Aprile 2006

    La musica rimbomba contro le pareti della piccola discoteca, accompagnata dalla miriade di luci psichedeliche.
    Verde, rosso, azzurro e violetto mi illuminano il viso per pochi secondi, lasciandomi poi per altrettanti al buio. Una canzone mai sentita, dal ritornello martellante, mi penetra le orecchie stordendomi.
    Mi guardo intorno leggermente intimorita, non che non sia mai entrata in un locale notturno, semplicemente non sono abituata a trascorrere la serata in questo modo. Prediligo un film, una pizza, una bevuta in compagnia, sono troppo timida per riuscire ad adattarmi in questi luoghi.
    Cosa che mi differenzia totalmente da Anya.
    La vedo correre, per quanto possa viste le decoltè tacco dodici, in pista e cominciare a ondeggiare a tempo, gli occhi quasi serrati e i capelli che sfrecciano ovunque.
    Spesso invidio la sua capacità di adattamento, il suo entusiasmo genuino e un poco infantile, la spontaneità che la guida in ogni gesto.
    Le sorrido da lontano intercettandone lo sguardo divertito, intravedo l'invito che mi porge ad avvicinarmi, ma declino scuotendo il capo.
    Oh Dio, proprio no. Non ho ancora nemmeno bevuto qualcosa e se non posso contare almeno su una sbronza leggera, col cavolo che mi precipito là in mezzo.
    Mi avvio veloce al bancone del bar, sperando non debba attendere troppo il mio turno.
    Il barista mi lancia un'occhiata veloce, scorrendo poi verso altri clienti. Si liscia il pizzetto argenteo affrettandosi verso l'ennesimo bicchiere da riempire.
    Appena uno sgabello si libera lo occupo senza esitazione, tirando giù lungo le cosce il vestito rosso che indosso. Mi guardo intorno curiosa di osservare i presenti, adocchiando una grande varietà di clienti.
    Coppie consolidate che ondeggiano al centro del locale, baciandosi di tanto in tanto, coppie da poco create, appoggiate alle pareti luride malamente dipinte di rosso vermiglio, che si lanciano sguardi fuggevoli, indugiando appena sul corpo del compagno. Gruppi di amici che scivolano uno sull'altro, bevendo avidi dai loro boccali colmi di liquidi multicolori.
    C'è quella giovane donna là in fondo, avvolta nel suo abitino nero, che si regge appena sugli stivali che calza. Fissa da lungo tempo l'uomo poco distante, cercando di attirarlo e accalappiarlo.
    C'è il ragazzino, che seduto sul divanetto bianco un po' sfondato, muove insistentemente la gamba, chiaramente nervoso e ansioso. Si rigira tra le dita una sigaretta, senza trovare il coraggio di accenderla e incrementare la cappa di fumo che aleggia su di noi.
    C'è un signore che ingoia interamente quello che dovrebbe essere un Margarita, lasciando che la fede che porta all'anulare sbatta provocatoria contro il vetro del bicchiere.
    Sorrido lievemente afferrando la mia consumazione, mi appresto ad assaggiarla, se non fosse che sento chiaramente qualcuno che mi squadra.
    Mi giro in varie direzioni per intercettare il curioso e lo identifico in un ragazzo poco distante. In piedi, appoggiato a un tavolino traballante non sposta un momento i grandi occhi da me, mettendomi non poco in soggezione.
    Sfuggo veloce al suo sguardo sistemandomi meglio sulla seduta, spero inutilmente che cambi obiettivo. Inutilmente perché percepisco distintamente la sua insistenza lungo la mia schiena e le gambe nude.
    Le gote mi si arrossano in un momento, manifestando la vergogna intensa che provo, vorrei intimargli di andarsene, scegliere qualcuno che sia disposto ad assecondarlo, o semplicemente di levarsi dalle palle, ma sono sempre stata troppo timorosa e impacciata per raccogliere il coraggio a due mani e spavaldamente sputare in faccia a qualcuno il mio disappunto.
    Una mano si posa sulla mia spalla facendomi sobbalzare dallo spavento.
    -Anya!- urlo poggiando sul bancone l'aperitivo appena finito.
    -Tesoro mio bello, cosa fai qui seduta?- chiede alzando un sopracciglio e leccandosi le labbra lucide.
    Scommetto che ha già trovato una possibile preda, forse l'ha persino già adescata. Ridacchio senza farmi vedere e la invito ad avvicinarsi per udirla meglio.
    -Non starai come tuo solito osservando la gente?- domanda sbuffando.
    Se possibile arrossisco ancora un po' evitando le sue occhiate di disapprovazione.
    -Oh, ti prego Raya! Vieni in pista, balliamo insieme... per di più un ragazzo decisamente carino ti sta fissando da ore.- sorride maliziosa indicando col capo colui che persiste nella sua attività di corteggiamento, se così si può definire.
    Arriccio il naso contrariata, non sono per niente incline a imbarcarmi in una relazione, che sia anche solo di sesso.
    -Lascialo perdere, per favore. Non voglio averci a che fare.- taglio corto sistemando i capelli dietro le orecchie.
    Comincio a sentire caldo, la folla sta aumentando e fra non molto non sarà più possibile intravedere l'uscita. Mi prudono i palmi della mani tanto desidero sgusciare via da questa situazione.
    -Dio Raya! Non ti capisco proprio, lo sai.- si lamenta incredula.
    E io vorrei sorriderle e chiederle perdono per il mio atteggiamento restio, invece l'irritazione cresce a causa della sua insistenza. Mi alzo all'improvviso obbligandola ad arretrare sorpresa.
    -Non te l'ho chiesto infatti.- ribatto acidamente.
    Estraggo da una delle scarpe una banconota da cinque che porgo al barista, pronta ad andarmene definitivamente. Decisamente un fiasco quest'uscita serale.
    Anya sbuffa per la decima volta, esaminando attenta la calca.
    -Non tornare a casa, è ancora presto. Hai bisogno di svago e scommetto che quel tipo, che per la cronaca ti fissa anche adesso, farebbe al caso tuo.-
    Serro le palpebre per un secondo, stufa e indisponente, nonostante non abbia un buon motivo per esserlo.
    -No, prendilo tu.- sussurro al suo orecchio, fermandomi appena a baciarle una guancia.
    Anya mi guarda truce per qualche attimo, ma alla fine mi abbraccia stretta in segno di saluto.
    Sono già diretta verso la porta che mi condurrà fuori quando sento il suo rimprovero colpirmi forte e chiaro.
    -Stai scappando-


    Novembre 2008

    C'è troppo silenzio.
    Alzo la testa soltanto per vedere le espressioni immutate dei miei familiari, nonché commensali. Tutti mantengono il capo chino sul proprio piatto, cercando di mangiare lentamente e ritardare il più possibile il momento del confronto.
    E, francamente, anch'io. Non ci tengo a sentirmi dire quanto sia stata sciocca e infantile a lasciare scivolare via un'opportunità del genere.
    Un tintinnio acuto mi risveglia, la forchetta di mio padre è scivolata violenta contro il piatto, per poi ribaltarsi sul pavimento.
    Incontro per la prima volta il suo sguardo costernato, sembra non riesca a capacitarsi di qualcosa. Io so cosa.
    -Orace...- sibila mia madre raccogliendo la posata e avvicinandosi a lui inquieta.
    È palpabile nell'aria l'agitazione e l'ira che presto si sprigioneranno.
    Mia sorella Lyne continua a ingurgitare la propria cena, evitando qualunque contatto con i presenti.
    -No, Clelia. Non possiamo più ignorare ciò che è accaduto.- prorompe severo.
    Un ghigno sarcastico mi si dipinge in viso prima che possa ingoiarlo.
    -Ne parli come fosse avvenuta una catastrofe.- sibilo incontrando i suoi occhi.
    È straordinario, due paia di iridi possono essere identiche, emanare perfino la medesima luce.
    Le sue verdi e scure, intense ed espressive si specchiano perfettamente nelle mie, ottenendo in risposta un riflesso impeccabile.
    -Infatti è esattamente così.-
    La sua risposta burbera scava nella mia mente una scia indelebile. Una punizione bastarda e cinica.
    -Papà per piacere...- ed è davvero come se lo pregassi di non continuare, sapendo benissimo di avere speranza alcuna.
    -Non starò in silenzio mentre mia figlia butta via ogni cosa buona le capiti!- le urla sono vicine, posso quasi vederle spingere contro la sua gola ingrossata -Sappiamo tutti benissimo quanto sia raro avere esperienze tanto importanti e prestigiose, nessuno e ripeto, nessuno di questa famiglia dovrebbe permettersi di fuggire così spudoratamente da tale fortuna! L'hai fatto con Parigi e adesso con Londra!- e ora grida proprio.
    Per un momento temo la giugulare scoppi e lo lasci inerme sul tavolo, riverso come un panno usato e strizzato. Forse una preoccupazione simile colpisce anche mia madre perché scosta la sedia e gli si accosta afferrandogli un braccio.
    Lyne volge lo sguardo a me, pregandomi silente di bloccare sul nascere questo disastro. Le sorrido debolmente tentando di rassicurarla.
    -Adesso calmati Orace...- lo rassicura la mia genitrice impaurita.
    Ciò ha seriamente dell'assurdo, quasi scoppio a ridere mandando definitivamente il cuore di mio padre a farsi fottere.
    -Che cosa ti dice il cervello, dannata ragazzina viziata, eh?- strepita ancora, superando la moglie e venendomi incontro.
    Sono convinta desideri tirarmi uno schiaffo, uno di quelli potenti che risuonano contro le pareti e sarebbe un avvenimento eccezionale perché mai ha alzato un dito sulle sue figlie.
    -Vuoi rimanere qui, facendo un lavoro qualunque in un negozio qualunque, aspettando immobile che la felicità piova dal cielo e si posi su di te?!- domanda retorico gesticolando.
    Non apro nemmeno bocca, sapendo bene quanto sia meglio prima lasciarlo liberare della rabbia e dell'incredulità che lo riempiono. Se soltanto le sue parole fossero meno irrisorie, questo mio silenzio sarebbe più semplice.
    -Vuoi annegare nell'apatia completa, senza correre alcun rischio, senza superare i tuoi limiti e le tue fobie? È questo che vuoi?- la voce si abbassa a un lamento rauco e stremato.
    Si affloscia come un fiore appassito e automaticamente mi intristisco anch'io, è sempre mio padre, colui che mi rimboccava le coperte, mi prendeva sulle spalle e correva con me per il parco, colui che mi sorrideva ogni mattina e ogni sera sazio semplicemente del suo amore incondizionato per me.
    Ma non basta, non mi basta pensare a quanto gli voglia bene per cancellare la sensazione annientante che mi ha scaraventato addosso. La sua delusione, il suo rifiuto. Non mi capisce e non tenta di farlo, mi allontana senza porsi altre domande scomode.
    Il silenzio denso e polveroso è tornato a ricoprire i mobili crema della cucina, penetrando ogni anfratto disponibile. Quattro statue di marmo ritte in piedi attendono un avvenimento qualsiasi, una reazione qualsiasi, possibilmente mia.
    Inspiro profondamente e deglutisco alla ricerca d'aria, di coraggio e non so che altro.
    Li supero senza esitare, quasi correndo verso l'ingresso.
    -Non sono pronta per andare da nessuna parte, papà. E so quanto questo per te, per voi, possa essere assurdo, ma non mi getterò in qualcosa che non posso affrontare.- spiego afferrando la borsa e girando le chiavi nella toppa.
    -Dove stai andando adesso?- chiede Clelia stupita.
    Oh mamma, non ricordi mai che non abito più qui...
    -A casa, ci sentiamo.- concludo sbrigativa varcando la soglia.
    Casa, adesso non è questo spazioso appartamento del centro, è un minuscolo monolocale sgangherato e disordinato, il mio rifugio e la mia libertà.
    Mi chiudo il portone alle spalle con un tonfo sordo, non potendomi impedire di sentirli mormorare al di là della parete.
    -Stai scappando-


    Marzo 2009

    -E se riprendessi le lezioni di canto?-
    La proposta stride contro le mie orecchie, cogliendomi di sorpresa. Non penso al canto da anni, da quando ero ancora una ragazzina ingenua.
    -Allora? Non mi pare una cattiva idea.- insiste Sierra.
    Mi volto verso di lei incrociando le gambe sul muretto di mattoni scheggiati.
    Il parco non è tanto rumoroso quest'oggi, si odono appena il sibilo del vento e il chiacchiericcio divertito dei bimbi sullo scivolo.
    Il cielo si ingrigisce ancora a causa della nuvolaglia fitta, lasciando trasparire solo pochi raggi caldi. Mi stringo nel giubbotto infreddolita da quest'inverno persistente.
    -Mi ascolti Raya?- richiama la mia attenzione sbattendomi una mano sulla fronte.
    Con qualche mugolio e una smorfia contrariata la guardo attenta.
    -Fa freddo non trovi?- chiedo incurante del discorso precedente.
    Non sono entusiasta di riprendere vecchie questioni, rispolverando sogni annegati in chissà quale pozzo.
    Si passa nervosa una mano tra i folti capelli rossi, raccogliendoli in una coda stretta.
    -Non cambiare discorso! Stavamo parlando di una cosa seria.- mi rimprovera tirandosi la borsa in grembo in modo da potersi avvicinare.
    -Veramente ne stavi parlando tu. Io proprio no.- ribatto piccata sfuggendo al suo sguardo scettico.
    Gli occhi corrono lungo gli alberi sbatacchiati dall'aria pungente del tardo pomeriggio. Un bambino corre inseguendo un bassotto saltellante, il sorriso dipinto sul suo volto è doloroso, una tremenda fitta al petto.
    Anch'io alla sua età ero così, piena di desideri e risa.
    -Raya... Perché no? Ti piaceva tanto ed eri anche parecchio brava.- afferma sicura, la voce fiera di tale costatazione.
    -Il tempo passato calza a pennello.- sussurro.
    Estraggo una sigaretta dal pacchetto ammaccato, pregustando il sapore acre della nicotina sulla lingua. Sierra mi allunga l'accendino, mantenendo la sua espressione contrariata e severa.
    -Non ti ci mettere anche tu, Sierra. Non riprenderò a cantare, Dio è passato un secolo dall'ultima volta e per un motivo.- spiego seccata inspirando a fondo.
    Il fumo brucia la gola, i polmoni, si annida in qualche anfratto già nero di rassegnazione. Ricopre altri strati di apatia, di sicurezza.
    -Sì e il motivo è che tu hai troppa paura di inseguire i tuoi sogni.-
    Le sue iridi grigie marcano la mia pelle chiara, cerca di leggermi attraverso, consapevole di non poterci riuscire, per nulla rassegnata alla distanza che ho posto tra noi. Sembra quasi mi abbia sputato in un occhio la propria contrarietà, quell'incomprensione che sta mutando in fiera disapprovazione.
    -Oh per favore, cantare non è più il mio sogno. Ero solo una bambina, prima o poi si cresce, sai?-
    Scuoto il capo gettando la cicca lontano da noi, osservando l'arco perfetto che descrive e l'atterraggio morente sull'erba bagnata.
    -Bel modo di diventare adulti.- sibila con amarezza.
    Le prime gocce di pioggia si abbattono sui passanti in corsa verso casa, o un riparo. Alzo il cappuccio e scorgo Sierra fare lo stesso, per nulla intenzionata a scappare da qui. Sorrido lievemente, è una della poche persone che conosco incapace di fuggire da qualcosa. Testarda, fiera e anche stronza, a dirla tutta.
    -Perché non puoi semplicemente accettare le mie scelte?- domando a bassa voce.
    Spero solo che almeno lei non mi infligga l'ennesimo colpo ben assestato.
    -Certo che le accetto, Raya!- sospira con sguardo triste -Non voglio obbligarti a fare alcunché, solo... Mi sembra tu non abbia più niente a cui aggrapparti, a cui riferirti.-
    La bocca le si tende in un accenno di sorriso, splendente nella sua trasparenza, quasi rumoroso nella sua invisibilità.
    Le lacrime mi salgono veloci agli occhi, irrispettose della mia inespressività, della mia durezza marmorea. Bussano e mi rammentano quanto in realtà sia suscettibile ad ogni tipo di attacco, sensibile ad ogni frase maledettamente azzeccata.
    Mi allungo verso di lei e mi lascio abbracciare, poggiando la testa sulla sua spalla ossuta. La stringo a mia volta, lasciandomi sfuggire il pianto appena accennato, senza produrre suoni o singhiozzi.
    Un pianto inconsistente, inutile nella sua impalpabilità.
    -Ok, la smetto Raya.- mi rassicura circondandomi completamente con le braccia.
    Vorrei ringraziarla, ma non saprei nemmeno per cosa. Se per questa concessione o per le sue asprezze taglienti. Se per l'abbraccio saldo che mi sta offrendo o se per il silenzio attuale.
    Ingoio un groppo di saliva troppo pesante, evitando di pensare a quale sia la ragione della mia gratitudine.
    -Solo, tesoro, non voglio ferirti, ma... non posso evitare di dirtelo.-
    Mi parla direttamente nell'orecchio, come temesse che le parole si possano disperdere o che qualcuno possa udirle.
    -Stai scappando-


    Giugno 2010

    -Raya?-
    La sua voce è come un sibilo, quasi silenzioso, quasi inesistente. Come possa averlo sentito è ancora un mistero, eppure mi rimbomba ancora in testa.
    Alzo lo sguardo sulle pareti del mio monolocale, osservando l'intonaco scrostato negli angoli, i quadri astratti leggermente inclinati.
    Mi pare così piccola questa stanza, soffocante per la prima volta.
    -Raya, stai bene?- la sua domanda brucia nuovamente le orecchie.
    Non riesco ad abbassare gli occhi e incontrare i suoi, a leggervi la speranza e l'amore.
    Tutto ciò è decisamente troppo da portare sulle spalle. Da portare sulle mie spalle.
    Pesa questa proposta, più del marmo, più del cemento e mi toglie il fiato.
    Soffoco un gemito, bloccandolo in gola, impedendogli di trovare sbocco e liberarsi indisturbato.
    Le gambe non mi sosterranno ancora per molto, tremano bisognose di condurmi a terra. Di schiantarmi contro il parquet impolverato.
    Allungo un mano verso di lui, tesa in attesa che l'afferri e che si sollevi dal pavimento.
    -Alzati, per favore.- la mia voce è un lamento stridente, basso e gutturale.
    Nicolaj mi accontenta, una smorfia in viso che lo deforma dando vita ad un'espressione di costernazione e dolore.
    -Raya cosa c'è che non va?- chiede ansioso avvicinandosi.
    E io non posso fare a meno di arretrare spaventata. Il cuore mi palpita veloce in petto, correndo verso non so cosa.
    Non capisco perché debba ripetere ogni volta il mio nome, Dio, odio sentirglielo pronunciare così teneramente, quasi con compassione.
    -Può apparire affrettato, ma lo sai quanto, insomma... quanto ti ami.- mi confessa gentilmente, prendendomi le braccia.
    Silente lo ringrazio per il sostegno, sono certa sarei caduta entro pochi secondi, altrimenti.
    -Io ti amo davvero, Raya.- si china sul mio viso, congiungendo le fronti in una carezza dura, pressante.
    Ancora Raya, ancora quel nome.
    Conosco l'amore che nutre per me, è il medesimo che scalpita e spinge in me, ma sembra troppo spaventoso questo passo. Un traguardo che non mi permetterà di tornare indietro, di ricredermi, di avere un'altra possibilità.
    Si appropinqua ad inglobarmi nel suo corpo muscoloso e colossale, confrontato col mio minuto e mingherlino. Ma io retrocedo ancora, sfuggendo definitivamente alla sua presa e risvegliandomi all'improvviso dallo stato confusionale in cui ero caduta.
    -Stai correndo troppo, Nic.- lo avviso schiarendomi la voce.
    Perché ha dovuto precipitare gli eventi, perché ha dovuto sentire la necessità di un legame maggiore?
    -Non stiamo bene così, forse?- domando indispettita, alzando lo sguardo verde nel suo castano, caldo e luminoso.
    -Certo che sì, ma cosa c'è di sbagliato nel desiderare di sposarti?- suona come una campana potente, una fine obbligata.
    Io non sono pronta per affrontare una conclusione del genere.
    -Niente, ma io non posso farlo. Insomma, comporta tante cose il matrimonio...- sussurro incerta.
    Ci sono troppe voci che sibilano contemporaneamente. Come posso scegliere quale ascoltare e seguire? Quasi non comprendo il significato delle loro parole.
    -Ok. Dimmi soltanto perché no...- richiede aggrottando le sopracciglia.
    Perché no? Ci sono talmente tanti motivi...
    Talmente tanti che nemmeno uno mi giunge alla mente, solo vuoto. Bianco vuoto luminoso.
    L'unica ragione reale dovrebbe essere l'amore mancato, ma so per certo non essere il mio caso. Non ho mai dubitato dei sentimenti che prudono, bruciano, nutrono me.
    Ma, ugualmente, come posso bloccarmi con lui, senza speranze di uscita? Solo cibo per delusioni sempre più enormi, che divoreranno la nostra routine...
    -Raya? Qual è la causa della tua indecisione?- chiede ad alta voce, parandosi nuovamente davanti a me.
    La visuale mi si oscura dinnanzi alla sua presenza mastodontica, non che Nicolaj sia particolarmente grosso, ma in questo momento mi sembra il più grande macigno esistente. Forse persino il più alto ostacolo mai incontrato.
    Perché la persona che amo deve rappresentare necessariamente un impedimento?
    Scuoto la testa amareggiata, la voce volata via chissà dove.
    -Hai paura? O semplicemente non è me che vorresti a fianco?- sussurra con sguardo serio.
    Lo leggo il suo timore, brilla attraverso le iridi irrequiete.
    Lo stomaco mi si contorce doloroso, una morsa d'acciaio ostruisce la gola, bloccando persino la saliva.
    Non posso neanche reggere il suo sguardo.
    E in un attimo corro verso il portone, lo spalanco veloce e frenetica, sbattendomelo alle spalle non appena riesco ad uscire. Percepisco il suo stupore colpirmi la schiena, costernato e ferito.
    Senza pensarci un secondo corro verso le scale, scendendole a due a due, minimamente intenzionata ad aspettare l'ascensore.
    Le pareti chiare della palazzina accompagnano la mia fuga, identiche e impersonali. Il silenzio riempie le orecchie, l'aria calda estiva giunge dalla finestra spalancata su un qualunque pianerottolo.
    Il sudore mi si appiccica sulle spalle e il collo, mi imbratta la canottiera e i capelli ribelli, mi strozza in una stretta degradante.
    Il cuore palpita frenetico, indice della paura che ancora mi abbraccia.
    Questa volta nessuna voce giunge a sibilarmi quelle parole consuete, taglienti e bastarde, nonostante le conosca meglio che il mio nome.
    E allora, orfana della loro insistenza e compagnia, le pronuncio io.
    -Stai scappando-

    E dannazione se ci credo.


    Giugno 2010

    Quando sono tornata a casa lui se n'era andato.
    Credevo mi avrebbe attesa, ci avevo sperato, ad essere sinceri. Invece ad accogliermi solo solitudine, le stanze spoglie della sua presenza ingombrante.
    Mi sono guardata intorno e ho lasciato che le lacrime mi solcassero le guance. Tutto aveva il sapore del silenzio qui dentro, anche il mio pianto.

    A una settimana di distanza ancora non ha chiamato, ma nemmeno io l'ho fatto. Ogni volta che impugno la cornetta tremo, le dita perdono la presa e questa si schianta a terra, non più silenziosa.
    Mi sembra così lontano, distante mille miglia, come se mi fosse sfuggito per sempre.
    Razionalmente so che non è vero, mi basterebbe cercarlo e lui sarebbe magicamente ancora qui. Con o senza quel maledetto anello.
    Con o senza un matrimonio alle spalle.
    Invece, la sconfitta mi arde già la pelle. Ho già perso...
    Strizzo le palpebre rannicchiandomi sul divano, l'aria fredda del condizionatore direttamente sparata sul viso. La televisione parla, urla di fronte a me, rabbiosa e intransigente, ma sono frasi di silenzio, di ghiaccio insostenibile.
    Il pianto mi coglie ancora, stuzzicandomi il palato e la lingua.
    Cosa manca? Perché questo bisogno di respirare strenuo e schiacciante?
    Mi mordo a sangue le labbra mentre la furia sale.
    Ed è cieca e vorace.
    Una sorpresa inaspettata in mezzo a tante esasperazione, tristezza, impotenza melliflue.
    Non avevo mai percepito prima d'ora tanta furia cocente, accecante, stridente. Una furia disperata, ancora piangente.
    Mi alzo afferrando scarpe e chiavi, già correndo per le strade.
    Non ricordo neanche se ho chiuso la porta, i marciapiedi si susseguono, bagnati e scivolosi dalla rugiada delicata. Questa pioggia appena accennata che profuma di temporale, di fulmini e tuoni.
    Le macchine schizzano, inseguono, rombano nel caos della quasi sera di un venerdì insulso. E chissà come gira il mondo oggi, a chilometri da qui o dietro l'angolo.
    Mi calco il cappellino sulla fronte, coprendomi la frangia arricciata dall'afa e dall'umidità.
    Stringo i pugni, una voglia sfrenata di urlare e picchiare e far soffrire mi sconquassa continua.
    Intravedo il cancello e mi precipito al citofono, pigiando sul tastino quasi a romperlo.
    Riconosco la sua voce, ma non rispondo consapevole mi possa vedere dalla telecamera. Percorro il vialetto ancora di corsa, chiamo l'ascensore impaziente e nervosa. Le gambe che si muovono vogliose di ingoiare altri metri, di saltare e superare.
    E ancora superare e cadere e superare...
    Colpisco il vetro con le dita, attendendo che il montacarichi giunga al quarto piano. Spero sia solo, voglio che lo sia.
    Mi fisso nella superficie riflettente, occupante l'intera parete.
    Sono così distante e piccola, al di là dello specchio. Cosa mai può esserci al di qua, allora?
    In un attimo giungo dinnanzi alla sua porta, già un poco aperta, una scia di luce proveniente dall'interno illumina lo zerbino marroncino.
    Entro ancora violenta e straripante, cercando Nicolaj con lo sguardo. Mi raggiunge dalla cucina, gli occhi spalancati e sorpresi.
    Solo una tuta lo copre, lisa e consunta, vecchia e non sua, è certamente troppo larga.
    Lo fisso per alcuni istanti pesanti, cercando il coraggio di fare, o dire qualsiasi cosa.
    Cercando il motivo per cui sono qui, esasperata e ansimante. Arrabbiata e insoddisfatta.
    Mi si avvicina preoccupato, studiandomi attento.
    La pioggia aumenta potenza e batte contro le finestre, il vento sibila creando una corrente che mi soffia sulla schiena, dalla porta d'entrata spalancata.
    Nicolaj mi passa a fianco e la chiude lentamente, tentando di non produrre eccessivo rumore, come se un filo invisibile e delicato potesse spezzarsi, lasciando soltanto deserto.
    -Cosa...?-
    Ma non permetto che si esprima al meglio, bloccandolo con un gesto imperioso della mano. Nonostante non corra più il battito non si è affievolito in petto.
    -Dillo!- sibilo imperiosa.
    E suona esattamente come un ordine, schifoso ed inutile.
    -Cosa?- domanda confuso.
    Volta il capo arruffato in una direzione e nell'altra come a ricercare la risposta altrove, negli oggetti, sui muri. Si passa una mano tra i capelli scuri, scarmigliandoli ancora.
    Scotta questa sensazione di furore.
    -Dillo, cazzo! Dillo!- urlo e ringhio, quasi impazzita.
    Sbarra gli occhi sorpreso, fino a che un baluginio appena percettibile gli rischiara lo sguardo.
    -Perché dovrei Raya? È esattamente ciò che vuoi, ma per cosa? Vuoi avere un'altra ragione per piangerti addosso e scagliarti contro il mondo crudele e ingiusto?- mi deride, incazzato.
    La sua acidità si intrufola in ogni mia fibra, aumentando questa follia.
    -Dillo stronzo!- gemo, la bocca storta in una smorfia poco rassicurante.
    -Stai scappando-
    E lo dice sul serio.
    Una bomba a orologeria scoppiata che abbatte e distrugge ogni rimasuglio. Solo resti e polvere.
    Solo una distesa bruciata regna nella mia mente.
    Ghigno e tutto esplode.
    Mi getto su di lui, una belva incattivita, i denti appuntiti, gli artigli affilati, la bocca spalancata, pronta a mordere, uccidere, mangiare.
    Lo spingo, lo colpisco con pugni sul petto, grido e grugnisco.
    Scaravento il telefono, l'attaccapanni, i libri, i vasi, le cornici.
    Come un uragano impazzito che si schianta contro qualsiasi cosa gli capiti a tiro, non lascia nulla indietro, niente al proprio posto.
    Nicolaj tenta inizialmente di fermarmi, bloccandomi i polsi e la vita senza stringere troppo, senza successo.
    Dopo qualche minuto si rassegna e rimane ad osservare lo scempio che sto sputando, ma non lo scorgo realmente.
    C'è così tanto da distruggere e abbattere ancora...
    -E ora? Ora sto scappando?- domando irriverente.

    Sono una bomba esplosa.









    (fine)



    Scusate, volevo tanto metterla... :D


     
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